Il testo che segue è una bozza di documento in vista dell’elaborazione di una prospettiva comune della SSG. La discussione è pubblica, gli interventi sono consentiti ai membri della Società registrati sul sito.
Il termine “critica” ha ancora un significato determinato? Non mancano segnali che fanno pensare il contrario: sempre più esso appare relegato ad una funzione retorico-esornativa, usurato, vittima della dépossession toccata a una parte consistente del vocabolario legato alla sfera del lavoro intellettuale (com’è il caso del cosiddetto critical thinking, che, associato al problem solving e al decision making, è tra le nuove “competenze” richieste agli universitari dalle aziende, p.e. nei test TECO). Ma se invece la “critica” mantiene un significato ulteriore, se intende farsi valere ancora come “arte della disobbedienza volontaria, della indocilità ragionata” o come un momento, benché piccolissimo, di quel più ampio movimento reale che sopprime lo stato di cose presente, allora una Società di Studi Governamentali – che, nel suo Manifesto, definisce proprio attraverso il metodo genealogico e l’ethos critico dell’investigazione i confini di una riflessione comune sulle trasformazioni indotte dalla governamentalità neoliberale nelle nuove politiche dell’istruzione e della ricerca e non solo – non può sottrarsi ad un’aperta denuncia del clima di normalizzazione e delle forme autoritarie oggi assurte, nel silenzio e nell’indifferenza, a prassi routinaria di governo. Non sono mancate in questi anni accuse ai Governmentality studies di dissolvere la funzione della “critica” in un esercizio di decostruzione integrato o assimilato ai registri tradizionali della ricerca sociologica, filosofica, storica; una critica priva di ogni “engagement personale, fisico e reale”, al riparo di una sostanziale delimitazione dell’analisi ai soli processi anonimi (mercato, concorrenza, regime imprenditoriale, capitalismo accademico…), che salta gli attori reali. Mancanze tanto più gravi quanto più le formazioni, gli attori, i processi e le pratiche in questione ci si offrono in una prossimità tale da rendere l’anonimato un artificio. In questi casi l’accusa di diserzione- o “liberazione dalla critica” si fa consistente, e reale il rischio che l’attenzione alle pratiche si confonda con un qualunque metodo empirico. (cfr. Governmentality Studies in Education, 2010). La nostra capacità di confrontarci con la domanda “circa il luogo e il tempo da dove parliamo e agiamo” (Revel), si misura anche – o soprattutto – nelle situazioni effettive che incontriamo nel nostro lavoro, nelle nostre pratiche quotidiane, dove vediamo colpite le condizioni minime di garanzia della stessa libertà di ricerca e insegnamento, nelle università, nella scuola, negli enti di ricerca (ma si potrebbe allargare il discorso anche ad altri canali della produzione e trasmissione del sapere, basti pensare al potere di controllo del mercato editoriale da parte di grandi editori e distributori). In ambiti politicamente ultra-sensibili della società quali sono università e insegnamento, il generale clima di normalizzazione proprio della odierna “governamentalità disciplinare” assume forme particolarmente vistose. Paradigmatiche sono in questo senso le dure sanzioni minacciate dalle Università di Perugia, Verona, Foggia, Bologna nei confronti di chi si non collaborerà alla prossima VQR (ossia quei docenti e ricercatori che risultino sprovvisti di ORCID, si astengano dal presentare i prodotti per la Valutazione, ecc.). A Perugia, il Senato Accademico ha annunciato “per quanti risultassero inadempienti […] la connotazione di ricercatore inattivo, comportando per la durata di un quadriennio le seguenti sanzioni: 1) non potranno partecipare ai Collegi di Dottorato, 2) non potranno essere referenti scientifici/tutors di Dottorandi e Assegnisti di ricerca, 3) non potranno partecipare ai Progetti della Ricerca di Base di Ateneo né come proponenti né come membri dei gruppi di ricerca, 4) non contribuiranno alla composizione in quota parte del fondo Ricerca di Base assegnato al Dipartimento di afferenza, 5) non potranno partecipare al premio annuale per la migliore pubblicazione, 6) non potranno presentare proposte di ospitalità per visiting researcher finanziate dall’Ateneo, 7) saranno comunque esclusi dall’assegnazione delle risorse messe a disposizione dall’Ateneo per le attività di Ricerca e Terza Mission”. A Bologna sanzioni analoghe sono accompagnate dall’indeterminata minaccia di “eventuali ulteriori misure adottate dall’Ateneo” (cfr. http://www.roars.it/online/a-perugia-e-verona-i-senati-decretano-la-vqr-di-polizia-un-autogol/). Alcune università bandiscono così dalla vita accademica docenti e ricercatori per un atto che neppure può dirsi di disubbidienza civile, consistendo non già nel rifiuto ad adempiere ad una disposizione di legge ma semplicemente nel rifiuto ad accogliere un invito a collaborare (e a collaborare, in sostanza, con le grandi multinazionali del nuovo “capitalismo accademico”: per farsene un’idea basta scorrere la lista dei partner del progetto ORCID, in cui spiccano – tra i maggiori finanziatori – monopoli quali Elsevier, Sage, Springer, Taylor and Francis, produttori di standard e indicatori bibliometrici del calibro di Thomson Reuters, produttori di dispositivi di controllo della produttività individuale – abitualmente adoperati per motivare assunzioni e licenziamenti – come Academics Analytics… là dove la valorizzazione in senso stretto si esplica anche sotto forma di produzione su larga scala di valori etici: codici, standard di integrità della ricerca, fino a veri e propri “kit etici” e relativi software di supporto). È probabile che i provvedimenti minacciati non potranno aver seguito; nondimeno non possono essere archiviati come semplici passi falsi. Essi infatti ci mettono di fronte al “neoliberalismo disciplinare” (Gill) proprio del nuovo “evaluative State” (Neave), dove il controllo si afferma come tecnologia globale di governo attraverso l’imposizione di obblighi di risultato, di “norme” tecniche di gestione, standard normativi globali, indicatori di performance e di qualità ecc. Prodotti al di fuori di ogni controllo democratico, i dispositivi in cui si articola la prassi valutativa assumono valore obbligante, si sovraordinano alla stessa legge, annientano ogni regola prodotta collegialmente – anche attraverso i necessari scontri tra le parti –, come pure ogni autonomia di giudizio in senso proprio, al cui posto subentra il riconoscimento meccanico di un’oggettività prodotta secondo metriche “indiscutibili” solo perché sottratte alla discussione. Queste e molte altre sono cose ben note all’ormai sterminata massa di studi critici sul tema degli ultimi vent’anni almeno. Ma da ben prima, gli effetti della penetrazione dell’higher capitalism nelle università americane erano chiaramente visibili. Già nel 1979, osservando l’adattamento forzato della conoscenza ai circuiti della moneta e alla disciplina concorrenziale, Lyotard prevedeva la risoluzione del nuovo regime di verità in un regime sistematico di terrore. “L’applicazione del criterio dell’efficacia a a tutti i nostri giochi non è disgiunta da certi effetti terroristici, velati o espliciti: siate operativi, cioè commensurabili, o sparite”. “Quando l’istituzione scientifica funziona in tal modo, essa si conduce come un potere ordinario, il cui comportamento è regolato dall’omeostasi. Questo comportamento è terroristico, come quello del sistema descritto da Luhmann. Intendiamo per terrore l’efficienza ottenuta attraverso l’eliminazione o la minaccia di eliminazione di un interlocutore dal gioco linguistico in cui si era impegnati con lui. Egli tacerà o darà il suo assenso non perché è stato confutato, ma perché minacciato di esclusione dal gioco (esistono molti tipi di esclusione). È l’orgoglio dei decisori, di cui non dovrebbe per principio esistere l’equivalente nelle scienze, ad esercitare questo terrore. Esso dice: adattate le vostre aspirazioni ai nostri fini, altrimenti…”.
Ovunque, secondo diversi registri, nella “buona scuola” come nella “buona università”, il regime valutativo fa leva sulla paura e sull’elementare pulsione all’autoconservazione. L’astensione o il boicottaggio – si dice, per giustificare le punizioni predisposte – minacciamo l’esistenza stessa delle strutture in cui si lavora. Ed è vero che una reale minaccia di eliminazione grava su corsi, dipartimenti, interi Atenei e sulle figure che vi operano – primi tra tutti i precari – nell’epoca del “Jobs Act” e della VQR (inaugurandola nel nostro Paese, l’Anvur neonata esordiva con “Alcune università dovranno chiudere…”). Tuttavia a minacciare di estinzione le strutture universitare, anche sotto forma di pilotato deperimento, blocco dei finanziamenti, del reclutamento ecc., non è in realtà l’astensione dalla valutazione ma proprio la stessa valutazione. Chi, convinto o persuaso, ubbidirà, magari questa volta si salverà dalla chiusura; ma se a chiudere non sarà il suo Dipartimento, è perché questa sorte toccherà a quello di qualcun altro, che non ha saputo ubbidire altrettanto bene. Il “premio” della sopravvivenza elargito agli atenei virtuosi è peraltro destinato ad essere soltanto temporaneo: la divisione virtuosi e non virtuosi, meritevoli e non meritevoli – e tutto il corredo retorico del nuovo regime valutativo – nasconde semplicemente la prassi reale del risparmio delle spese improduttive e della conseguente concentrazione delle risorse. E certo non lo si scopre adesso. Già un articolo del 1998 sul primo esercizio di valutazione accademica in Gran Bretagna denunciava: “L’esercizio è chiaramente un preludio politicamente motivato a chiusure e licenziamenti – un esercizio per giustificare, in ultima analisi, in nome della competitività economica [..] un ulteriore feroce attacco al settore dell’istruzione superiore. Tuttavia, la resistenza degli accademici non si è tradotta in nessun modo avvertibile in azioni efficaci. Non c’è dubbio che questo si debba in parte alla molta paura che l’esercizio ha generato” (Broadhead e Howard, “The Art of Punishing”: The Research Assessment Exercise and the Ritualisation of Power in Higher Education).
Naturalmente la valutazione non riguarda soltanto o in modo privilegiato l’università e la ricerca: scuola, sanità, giustizia, servizi pubblici di qualsivoglia natura, come pure aziende e fabbriche – dove questo nuovo genere di “comando sul lavoro” nasce – ne costituiscono allo stesso titolo il dominio. Ciò non significa tuttavia che un’azione di dissenso e di contrasto non possa, o piuttosto non debba, muovere proprio dal terreno determinato che ci vede coinvolti in prima persona, mettendo qui all’opera la capacità di chiarificazione teorica di cui disponiamo. Davvero oggi “la questione della resistenza si pone in modo nuovo. Certo, bisogna ancora pronunciare dei discorsi critici (…). Ma quando siete stati inseriti in una situazione di concorrenza, sotto la pressione della prestazione, all’interno di dispositivi di valutazione o di autovalutazione, conviene agire anche a livello della propria pratica professionale, sulle relazioni sociali più elementari che intrattenete con i vostri colleghi e sulle vostre stesse reazioni e motivazioni. (…) Il problema non è soltanto quello di denunciare un’ideologia perniciosa, delle riduzioni di effettivi o delle leggi liberticide, bensì quello rifiutare di essere coinvolti in dispositivi e situazioni che ci obbligano ad andare contro gli altri e contro noi stessi, che si ritorcono contro di noi, come la valutazione” (Laval, cfr. materialifoucaultiani.org).
Importanti voci critiche non hanno mancato di manifestare in questi anni una ferma opposizione verso la valutazione (o neovalutazione per meglio intenderci) e la sua logica poliziesca. Ed è certo il segno che si tocca un punto nevralgico delle politiche neoliberali, se il semplice annuncio della possibilità di un’astensione dalla VQR scatena reazioni impensabili e se, parallelamente, nella scuola si chiede di “non avere le mani legate” contro i “docenti contrastivi” (come sono chiamati coloro che in vario modo non sono disposti a collaborare con l’ultima riforma scolastica e specificamente con gli organismi di valutazione da essa previsti). Il fatto che le proteste nelle università abbiano preso avvio dalla questione del blocco degli scatti stipendiali (un impoverimento indice comunque di una crisi del ruolo sociale dell’università) non significa che esse siano destinate a restare entro questi confini. Già diversi documenti prodotti nelle scorse settimane da Dipartimenti, Società scientifiche, oltre che da diverse sigle sindacali ecc. testimoniano la possibilità di ampliare l’orizzonte delle questioni in gioco nel temuto blocco della VQR. Dimostrare che un tale cieco dispositivo di governo può essere fermato e che le attuali condizioni possono essere ridiscusse, dimostrare cioè che si può e anzi si deve tornare a riflettere collettivamente come da lungo tempo non accade, sarebbe già un primo – importante, anzi, allo stato attuale, molto importante – risultato.